La storia è un profeta con lo sguardo rivolto
all’indietro: da ciò che fu annuncia ciò che sarà”. Questo afferma lo scrittore
Eduardo Galeano, mentre Antonio Gramsci
precisa: “Il presente contiene tutto il passato”. Tenendo ferme queste due
affermazioni sarà però necessari aver presente che la storia non è soltanto
quella scritta volumi codificati e poi magari revisionati. Quella cioè delle classi che man
mano hanno assunto il potere economico, spirituale e statuale. E’ storia anche
il racconto tramandato oralmente o cantato, che come un fiume carsico percorre
sotterraneo popoli e comunità per poi riaffiorare improvviso dopo qualche
evento più o meno esplosivo. E’ storia anche quella non scritta, o poco
scritta, dei gruppi sociali subalterni. Anche se questa storia è ovviamente,
come osserva Gramsci nei suoi “Quaderni dal carcere”, necessariamente
disgregata ed episodica per cui ogni traccia di iniziativa autonoma è di
inestimabile valore, pur nella consapevolezza che ogni frammento di essa è
comunque inquinato dalla penetrazioni delle classi dominanti. Intromissione che
è avvenuta anche con la forza degli ordinamenti di chi detiene il potere, ma
soprattutto con l’ingerenza culturale subdola, sottile, soft. Quindi quando
ascoltiamo il racconto o il canto che si tramanda dobbiamo cercare, per quanto
possibile, di depurarlo da queste stalattiti che dall’alto scendono nel tessuto
popolare e tendono a cambiarne i contenuti culturali intrinseci. Non è
un’operazione facile, ma credo che il tentativo di depurazione valga la pena di
essere sperimentato.
E’ in questo ambito che bisogna tener presente il fatto
che quando che quando l’anziano racconta la sua storia c’è sempre il pericolo
che si riferisca ad avvenimenti passati visti con gli occhi del presente.
Questo ovviamente avviene inconsapevolmente in quanto ogni individuo non è
statico, ma come tutte le cose di questo mondo è in divenire e di conseguenza
ogni giorno che passa acquisisce un bagaglio culturale che si stratifica e lo
muta. Riuscire a scalfire queste incrostazioni è estremamente importante perché
solo così si riesce realmente a capire il passato dei ceti dominati, quello che
la storia ufficiale ignora, nasconde o mimetizza. A proposito di questa
mimetizzazione ricordo i racconti dello zio Giovanni che mi presentava una
trincea del Carso ben diversa da quella che leggevo sui libri di scuola. In
questi ultimi soltanto episodi di eroismo contro i cattivi nemici, nei suoi
racconti invece i commilitoni decimati non dal nemico che avevano di fronte, ma
da quello che li comandava nelle retrovie. Un’altra cosa da tenere presente
quando si ascolta il racconto o il canto è quella di storicizzare il periodo a
cui si riferisce la narrazione. Sintomatico a questo proposito quanto mi diceva
la nonna, sulla scorta di ciò che le raccontava la sua, sull’arrivo degli
“alemanni” nell’astigiano come se ciò fosse avvenuto non molti anni addietro,
mentre in realtà si trattava del passaggio dell’esercito di Federico Barbarossa
nel 1155, dopo la distruzione del libero comune di Asti, che si recava ad
assediare la città appena nata di Alessandria.
E’ solo infatti dal secolo scorso che con la scolarizzazione
di massa, i ricordi diventano scritti e iniziano veramente a storicizzarsi
anche se ora più di prima sono soggetti alle infiltrazioni culturali delle
classi dominanti a causa del bombardamento massmediatico del periodo. Infatti
se da un lato il brusco salto di qualità avvenuto con la Guerra di Liberazione
pota in primo piano immense masse diseredate che si scolarizzano e diventano
protagoniste tentando di trasformarsi da classe dominate-subalterne a classi
dominate-dirigenti, dall’altro una reazione contraria delle classi dominanti le
sconfigge culturalmente, e non solo, portandole ad inserirsi passivamente in un
nuovo tipo di società dove al maggior benessere corrisponde un consumismo
sfrenato. In questo ambito viene consumata anche la trasmissione, da una
generazione all’altra, delle culture, delle esperienze e delle memorie,
scomparse del tutto o quasi. E’ insomma il tentativo, purtroppo finora
riuscito, di togliere ai ceti subalterni anche la loro identità e le loro
radici.
E’ proprio in questo ambito che, il laboratorio “Parole
in Gioco” quest’anno si è dato come nume tutelare Fra Dolcino. Proprio a settecento
anni da quel rogo che, con la sua carne, avrebbe dovuto bruciarne anche le
idee.
Dolcino è la dimostrazione che i ceti dominanti
combattono le diversità con la ferocia, la falsità e l’oblio. E’ la prova
provata di quanto ho esposto a proposito del fiume carsico della storia orale.
La sua vicenda infatti mi fu donata proprio dall’oralità di un affabulatore nel
lontano 1938 e ora, con le mie modalità espressive, l’ho condivisa con gli
altri nel poemetto “La Fenice Libertaria” che ha accompagnato i nostri
incontri.
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