giovedì 14 luglio 2011

LINGUAGGI DELL'ESPERIENZA E LA CULTURA DELLA MEMORIA


La storia è un profeta con lo sguardo rivolto all’indietro: da ciò che fu annuncia ciò che sarà”. Questo afferma lo scrittore Eduardo Galeano, mentre Antonio  Gramsci precisa: “Il presente contiene tutto il passato”. Tenendo ferme queste due affermazioni sarà però necessari aver presente che la storia non è soltanto quella scritta volumi codificati e poi magari revisionati. Quella cioè delle classi che man mano hanno assunto il potere economico, spirituale e statuale. E’ storia anche il racconto tramandato oralmente o cantato, che come un fiume carsico percorre sotterraneo popoli e comunità per poi riaffiorare improvviso dopo qualche evento più o meno esplosivo. E’ storia anche quella non scritta, o poco scritta, dei gruppi sociali subalterni. Anche se questa storia è ovviamente, come osserva Gramsci nei suoi “Quaderni dal carcere”, necessariamente disgregata ed episodica per cui ogni traccia di iniziativa autonoma è di inestimabile valore, pur nella consapevolezza che ogni frammento di essa è comunque inquinato dalla penetrazioni delle classi dominanti. Intromissione che è avvenuta anche con la forza degli ordinamenti di chi detiene il potere, ma soprattutto con l’ingerenza culturale subdola, sottile, soft. Quindi quando ascoltiamo il racconto o il canto che si tramanda dobbiamo cercare, per quanto possibile, di depurarlo da queste stalattiti che dall’alto scendono nel tessuto popolare e tendono a cambiarne i contenuti culturali intrinseci. Non è un’operazione facile, ma credo che il tentativo di depurazione valga la pena di essere sperimentato.
E’ in questo ambito che bisogna tener presente il fatto che quando che quando l’anziano racconta la sua storia c’è sempre il pericolo che si riferisca ad avvenimenti passati visti con gli occhi del presente. Questo ovviamente avviene inconsapevolmente in quanto ogni individuo non è statico, ma come tutte le cose di questo mondo è in divenire e di conseguenza ogni giorno che passa acquisisce un bagaglio culturale che si stratifica e lo muta. Riuscire a scalfire queste incrostazioni è estremamente importante perché solo così si riesce realmente a capire il passato dei ceti dominati, quello che la storia ufficiale ignora, nasconde o mimetizza. A proposito di questa mimetizzazione ricordo i racconti dello zio Giovanni che mi presentava una trincea del Carso ben diversa da quella che leggevo sui libri di scuola. In questi ultimi soltanto episodi di eroismo contro i cattivi nemici, nei suoi racconti invece i commilitoni decimati non dal nemico che avevano di fronte, ma da quello che li comandava nelle retrovie. Un’altra cosa da tenere presente quando si ascolta il racconto o il canto è quella di storicizzare il periodo a cui si riferisce la narrazione. Sintomatico a questo proposito quanto mi diceva la nonna, sulla scorta di ciò che le raccontava la sua, sull’arrivo degli “alemanni” nell’astigiano come se ciò fosse avvenuto non molti anni addietro, mentre in realtà si trattava del passaggio dell’esercito di Federico Barbarossa nel 1155, dopo la distruzione del libero comune di Asti, che si recava ad assediare la città appena nata di Alessandria.
E’ solo infatti dal secolo scorso che con la scolarizzazione di massa, i ricordi diventano scritti e iniziano veramente a storicizzarsi anche se ora più di prima sono soggetti alle infiltrazioni culturali delle classi dominanti a causa del bombardamento massmediatico del periodo. Infatti se da un lato il brusco salto di qualità avvenuto con la Guerra di Liberazione pota in primo piano immense masse diseredate che si scolarizzano e diventano protagoniste tentando di trasformarsi da classe dominate-subalterne a classi dominate-dirigenti, dall’altro una reazione contraria delle classi dominanti le sconfigge culturalmente, e non solo, portandole ad inserirsi passivamente in un nuovo tipo di società dove al maggior benessere corrisponde un consumismo sfrenato. In questo ambito viene consumata anche la trasmissione, da una generazione all’altra, delle culture, delle esperienze e delle memorie, scomparse del tutto o quasi. E’ insomma il tentativo, purtroppo finora riuscito, di togliere ai ceti subalterni anche la loro identità e le loro radici.
Da questo deriva la necessità di raccogliere quanto ancora è rintracciabile, classificarlo, salvarlo dall’oblio e possibilmente trasmetterlo.
E’ proprio in questo ambito che, il laboratorio “Parole in Gioco” quest’anno si è dato come nume tutelare Fra Dolcino. Proprio a settecento anni da quel rogo che, con la sua carne, avrebbe dovuto bruciarne anche le idee.
Dolcino è la dimostrazione che i ceti dominanti combattono le diversità con la ferocia, la falsità e l’oblio. E’ la prova provata di quanto ho esposto a proposito del fiume carsico della storia orale. La sua vicenda infatti mi fu donata proprio dall’oralità di un affabulatore nel lontano 1938 e ora, con le mie modalità espressive, l’ho condivisa con gli altri nel poemetto “La Fenice Libertaria” che ha accompagnato i nostri incontri.


                         LUIGI  TRIBAUDINO

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