giovedì 23 giugno 2011

i racconti - la memoria


Ortensia Corallini


QUANTO VALE UN SORRISO

Non avete notato che le attrici giovani e non più giovani hanno tutte la stessa espressione? Il viso levigato con le gote rialzate e le rughe stirate dal collagene, negli occhi neanche l’ombra di un sorriso, tanto meno sulla bocca – che non è più una boccuccia di rosa – ma un canotto per attraversare un mare in tempesta.
Hanno negli occhi tanta tristezza nella ricerca dell’eterna giovinezza. Nella corsa contro il tempo,che inesorabilmente passa, dovrebbero ricordare, che sulla terra esiste la legge di gravità che con la sua attrazione tende a far scendere tutto verso il basso: anche il nostro corpo.

Guardate invece il viso di un’anziana contadina dove gli occhi sorridono contornati da una raggiera  di rughe ed inoltre guardate l’innocenza e la felicità di un bambino che è amato, che è stato voluto, desiderato e che non conosce ancora nulla della vita.         
Non è forse tutto più bello, semplice e spontaneo?

Provate anche voi a sorridere di più, (anche se a volte non ne avete tanta voglia) ai vostri cari, agli amici, ad una commessa, ad un impiegato un po’ supponente che forse con il vostro sorriso riuscirete a conquistare la sua cortesia e grazia e vedrete anche quante porte si spalancheranno davanti alla vostra gentilezza!

Io sono sposata da quarantadue anni e con mio marito reciprocamente ci diciamo “Per piacere – Grazie”.
Dentro di me ringrazio nostro Signore per la grazia di avere un marito con cui dividere giorno per giorno gioie e dolori e di svegliarmi ogni mattino con lui vicino.

LA TRANSUMANZA …… (da Gabriele D’Annunzio a Ortensia Corallini)


       *“Settembre; andiamo è tempo di migrare …..”di portare a fondo valle non solo la mandria ma ciò che frulla in noi per migliorare la nostra vita. Finire ciò che abbiamo incominciato e mai finito; fare una specie di critica al nostro operato per controllare se abbiamo fatto bene, se non abbiamo offeso qualcuno, se non abbiamo cancellato dai nostri pensieri qualcun’altro che invece dovremmo tenere più in considerazione.
L’estate scorsa è morto per un cancro allo stomaco, un carissimo amico. Lui era il papà di Dorina, compagna di classe di Laura, mia figlia.
Ci siamo conosciuti quando Dorina e Laura frequentavano la prima elementare. Ci siamo frequentati poco perché noi, genitori, lavoravamo in proprio: io e mio marito eravamo fiorai mentre i genitori di Dorina erano pastai, di conseguenza il tempo libero era molto poco, ciononostante siamo stati molto amici: di un’amicizia profonda. In trentuno anni  abbiamo diviso e condiviso gioie e dolori.
E’ stata una cosa improvvisa che mi ha lasciato uno sgomento profondo nel vedere quella persona che da ottanta chili qual’era è arrivata a pesarne trentacinque.
Un pomeriggio di poche settimane fa, sul tardi, sono andata a trovare la mia amica. Lei non ha voluto andare a vivere col figlio, ma è rimasta in quella casa che loro due avevano costruito pezzo per pezzo con tanti sacrifici.
Ho conosciuto in quel momento, guardandola negli occhi, l’immenso vuoto in cui era precipitata e l’immensa solitudine in cui si trovava.
Secondo me questa è anche la transumanza della nostra vita. Come le mandrie e i greggi che scendevano al piano, alle stalle, percorrendo tanti e tanti kilometri e la mucca regina con il campanaccio al collo dal timbro profondo che si espandeva in tutte le vallate intorno.
Una sola volta ho visto una transumanza, venticinque anni fa, nella vallata di Viù e penso che quella sia stata anche l’ultima, perché in seguito avrebbero trasportato gli animali con i camion.
Devo dire che è stata una emozione così bella vedere quelle mucche marciare lente, con passo cadenzato, in file ben ordinate, guidate da cani urlanti e gioiosi e dai pastori vestiti proprio come i “PASTORI” che con quei passi così lenti  e cadenzati sembravano dirti “Vai piano che tanto arriverai dove vuoi e con chi vuoi anche senza correre”.
Mi ha fatto un po’ pena il toro, poverino, che in mezzo a tanto ben di Dio, gli avevano messo un grembiulone molto robusto per impedirgli di fare la cosa più naturale di questo mondo, la cui conseguenza, è appunto, l’incremento della vita sulla terra.
E allora buona transumanza a tutti. Che essa sia lenta, lunga, agevole ed in compagnia  dei nostri, vostri cari.
25/11/”07

*Gabriele D'Annunzio "La Transumanza"  


Maria Di Rosa Ghio


RICORDI D’INFANZIA 

Sono nata a Torino da madre piemontese nata a Cuneo e padre campano nato a Salerno.
Famiglia operaia, la mia, composta, naturalmente da padre, madre, una sorella ed un fratello molto più grandi di me.
Essendo la più piccola ero la più coccolata, viziata, in modo particolare da mio padre.
L’affetto, l’amore più grande mi fu dato proprio da lui, penso l’unico nella mia vita. Quando a soli quarantadue anni morì, per un male inguaribile, esattamente il ventiquattro maggio millenovecentoquarantadue, io avevo dieci anni.
Dopo la sua morte il mio carattere mutò. Divenni musona, triste e insicura.  Sentivo la sua mancanza. Mi mancava la sua protezione, i suoi consigli, la sua sicurezza dura come una roccia.
Ricordo come in un sogno quando mi accompagnava all’asilo sulla sua bicicletta, anche d’inverno. Mi copriva per ripararmi dal freddo con la sua mantella nera, io lì sotto sentivo il suo calore e mi sentivo protetta come se i lembi della mantella fossero due ali d’angelo e anche quando la domenica puntualmente si andava a piedi da dove abitavamo, via Botero angolo via Garibaldi, fino al dopolavoro FIAT in corso Moncalieri, percorrevamo tutta via Po dove sotto i portici c’era un distributore automatico. Con le monete che si usavano come gettoni, ci si poteva servire a piacere di merendine, cannoli, caramelle ecc. ecc.
Quando passavamo lì davanti, ed io tenevo la mia mano nella sua, gliela stringevo forte forte; quello era il segnale!....
Lui diceva “Cos’è che vuole la mia bambina?”
Così succedeva anche alla gelateria vicino casa.
Lui, mio padre, era sempre pronto a soddisfare tutti i miei desideri. A volte penso che se fosse vissuto più a lungo la mia vita sarebbe stata impostata ben diversamente.
Con tutto il rispetto per mia mamma che essendo rimasta vedova giovanissima, in tempo di guerra, nella miseria più nera, ci ha cresciuti tutti e tre da sola, lavorando duramente, tanto che il suo carattere divenne duro, forte: “un maresciallo in gonnella”. Di certo non fu un vissuto di dolcezza, tanto da farmi sentire la mancanza di papà.

ricordi di gioventu’ 


Voglio riprendere il discorso dei miei precedenti scritti. Sulle mie, diciamolo pure “avventure” di quando ero poco più che una ragazzina.
Come ogni anno, in chiusura del laboratorio teatrale dell’UNITRE di San Gillio, si allestisce uno spettacolo dove anch’io avendo partecipato al laboratorio posso recitare e salire s’un palco. Cosa che fin da quando ero giovane ho sempre desiderato. Ecco perché ora voglio raccontare l’ingenuità e l’incoscienza di due ragazzine di quindici anni. Io e Piera eravamo amiche per la pelle e nell’età dei sogni, dove tutto sembra possibile proprio perché si era giovani e diciamolo pure, carine.
La mia amica era abbonata al settimanale di romanzi e fotoromanzi a puntate “Grandhotel”. Nelle ultime pagine della rivista c’erano gli annunci pubblicitari, tra cui risaltava uno in modo particolare  perché scritto a lettere cubitali: “CERCASI GIOVANI COMPARSE PER iL PROSSIMO FILM NELLA CITTA’ DÌ TORINO. CHI FOSSE INTERESSATO DEVE MANDARE DUE FOTOGRAFIE, DÌ CUI UNA DÌ FRONTE E L’ALTRA DÌ PROFILO, AL SEGUENTE INDIRIZZO ......
A noi non sembrò vero! Così di nascosto dalle nostre famiglie facemmo subito le fotografie e le spedimmo, naturalmente con il mittente, aspettando con ansia la risposta, adesso non ricordo bene, ma penso che avremmo dovuto aspettare oltre un mese.
Il tempo passò e ormai deluse, tanto da non pensarci più, un giorno che ero sola in casa, sentii suonare alla porta, aprii e si presentarono due distinti signori che si qualificarono come registi. Dopo avermi chiesto se ero stata io a mandare le fotografie mi dissero che erano interessati al mio volto e naturalmente anche alla mia amica. Alla mia risposta affermativa diedero appuntamento a tutte e due in un bar di piazza San Carlo. Naturalmente andammo cercando di essere il più possibile disinvolte, ma non vi dico il batticuore!
Quando arrivammo, questi signori che già ci aspettavano, incominciarono a parlare e parlare facendoci domande su domande, ripensadoci adesso credo che fosse per vedere come sapevamo esprimerci nel dare le risposte.
Avete presente due oche, e che fatica per fare uscire anche solo un filo di voce?
Non lo sapremo mai se realmente in loro c’era l’intenzione di farci un provino improvvisato e se realmente erano due registi. A noi sembrarono tali, tanto che quando ci lasciarono, salutandoci cordialmente, ringraziandoci e pagando le consumazioni ci promisero che ci avrebbero contattate. Cosa che non successe mai.
Se penso al rischio che abbiamo corso, proprio da ingenue e da stupidine a fidarci di quei due! Certo che se ci fosse stato ancora il cinema muto, cioè senza sonoro e quelle due persone fossero stati per davvero due registi e fossero stati veramente interessati a noi, un contrattino non ci sarebbe scappato, sì, certo: ma come due belle statuine!

un sacco di ricordi

Nel precedente incontro di scrittura creativa, Angela ha portato un ricordo del suo matrimonio. Un cofanetto con carillon, dove si può sentire il motivo del filo conduttore dello splendido   film di Charlie Chaplin “Luci della  Ribalta” da me visto e rivisto.
Arrivata a casa, mi sono ricordata che in mansarda, dentro un baule, conservo anch’io tanti oggetti.
“Vestiti miei. Di una taglia da sogno!” eppure, mi dico quasi incredula: “io ci sono stata dentro!”
Ci sono pagelle dei miei figli, vecchie fotografie, dischi di quarantacinque giri, di Luciano Taioli, Nilla Pizzi, Carla Boni, Claudio Villa  e tanti altri che adesso non sto ad elencare.
Oltre a queste cose ed altre cianfrusaglie c’è anche portagioie con carillon che suona il motivo “Oh my papà” .
Ricordi che la polvere sembra abbia consumato. E invece no. No. Sono sempre lì vivi e forti di emozioni e penso al giorno in cui io non ci sarò più: i miei familiari faranno di tutto un falò ed i ricordi diventeranno solo più, un mucchietto di cenere.
  
PER IL GIORNO DELLA MEMORIA. (Lettura in San Gillio del 29/01/2008)
  
Quando si rievocano le imprese di guerra, si rischia spesso di cadere nella retorica dei ricordi, della memoria.

Sono molti, troppi coloro che dicono “io c’ero”. Che ricordano  le ore, il clima di allora nelle case in conseguenza  della dittatura e della guerra. Ebbene posso dire anch’io  che c’ero. Ero nell’età scolastica: avrei dovuto viverla spensierata, felice. Ma non fu così.
Ben presto la mia città, Torino, divenne oggetto di continue incursioni aeree, ogni genere veniva razionato, c’era il coprifuoco e nessuno poteva uscire di casa dopo le ventidue.
Nel 1942 la mia casa fu distrutta dai bombardamenti e fu una delle prime in città. Nello stesso anno morì mio padre per un male incurabile.
Mia madre rimase vedova con tre figli.  Io ero la più piccola. Mia sorella aveva sedici anni e mio fratello diciotto. Lui sentì subito la sua responsabilità di uomo. L’unico rimasto in famiglia.
Successe che mio padre aveva dato in prestito un libro ad un suo collega di lavoro. Antifascista, militante partigiano, in seguito morì fucilato a tradimento sotto casa. Noi eravamo all’oscuro di tutto questo e quindi alla morte di mio padre, mio fratello decise di andare a riprendere questo libro a casa di questa persona, che all’insaputa, era sorvegliata dalla milizia fascista.
Quando lui si avvicinò alla porta di casa del collega di mio padre, dei signori in borghese gli intimarono di seguirli. Lo portarono in via Asti. Lì portavano gli ostaggi e le persone sospette. Per farli parlare usavano la tortura  anche se capitavano persone, che come mio fratello, erano all’oscuro di qualsiasi fatto.
Quella sera mia mamma non vedendolo arrivare incominciò a preoccuparsi. Attese fino al mattino, poi decise di andare in questura per denunciarne la scomparsa. Con dolore le dissero che era stato trattenuto per accertamenti e che sarebbe stato rilasciato al più presto. Se ben ricordo, passarono cinque o sei giorni. Quando ritornò a casa disse solo che a tutti i costi volevano sapere cose che a lui erano del tutto sconosciute. Da quel giorno non fu più lo stesso. Non disse mai che cosa gli avevano fatto. Continuò a lavorare, prese il diploma da perito meccanico alla scuola serale. Era diventato pauroso, persino della sua ombra e vedeva il male dappertutto. Andava man mano peggiorando e si aggravò a tal punto da doverlo ricoverare in clinica per malattie mentali, entrando e uscendo a periodi alterni.  Così iniziò il suo calvario.
Le sue giornate le trascorreva pitturando, scrivendo.
La mamma lo curò con amore fino alla sua morte. Morì all’età di sessantasei anni e lei lo seguì dopo appena quindici giorni. A ottantasette anni. Il suo compito era concluso. Ormai non ci sarebbe più stato bisogno di lei.
Come si possono dimenticare gli orrori della guerra!
Non dovrebbero mai più ripetersi. Eppure guardando ai recenti avvenimenti, sembra di dover dedurre che l’uomo non ha imparato niente dalla storia.
Sembra non  aver limiti la capacità dell’uomo di inventare il male. 

Angela Lanotte

 RICORDO DELLA MIA GIOVINEZZA 
  
Mio papà  era un distillatore e lavorava in una distilleria.
I miei genitori erano molto esigenti nell’impartire l’educazione a noi figli e di questo devo dire loro grazie, anche se, qualche volta ci sembravano eccessivi.
Mia mamma, per esempio, era molto accorta nel controllare le amiche che frequentavamo. A quel tempo i ragazzi e le ragazze non dicevano tante parolacce come usa tra i giovani di adesso. Oh Dio, non voglio fare di tutta un’erba un fascio, come si suol dire!  Ma, comunque mia mamma, se per caso sentiva mentre giocavamo un’amica  che diceva scema, per lei era già una parolaccia e riteneva la ragazza non molto educata e quando tornavo a casa per prima cosa mi diceva: “Tu quella amica non la devi più frequentare”.
Noi eravamo sette figli ed i miei genitori erano esigenti anche a tavola. Non dovevamo toccare le posate prima che fosse pronto per mangiare e quando si metteva la frutta a tavola non si doveva toccarne una e poi lasciarla per sceglierne un’altra ma si sceglieva prima con gli occhi e mai la più bella e la più grossa.

          LA VECCHIA TRADIZIONE 

Quand’ero ragazzina ai nonni non si dava del tu ma del VOI 0 del LEI. A mio nonno si diceva “SIGNURI’” (che sembra quasi voglia dire: Signoria Vostra). I miei genitori gli davano del VOI mentre noi, che eravamo più evoluti, ai nostri genitori davamo del TU. Il rapporto era già più amichevole e si dialogava di più.
Adesso che siamo in inverno, per scaldarci accendiamo i termosifoni, mentre giù al mio paese e penso anche negli altri paesi della zona, si accendeva il braciere.
Per fare la brace da mettere nel braciere, d’estate si accendeva la legna, quando il fuoco aveva ben preso tanto che la legna diventava rovente si buttava sopra l’acqua, il fuoco si spegneva e la si faceva asciugare.  Così si otteneva la cosiddetta carbonella. Oppure si schiacciava e si faceva la brace da mettere sempre  nel braciere e si cercava di mantenere del fuoco non troppe forte.
Quando d’inverno il braciere era acceso, per scaldarci ci mettevano attorno e se ci mettevamo troppo vicino si formavano delle macchie sulle gambe che si chiamavano “LE SALAMELLE” che non erano tanto belle a vedersi e noi ci vergognavamo anche un poco, allora per ovviare all’inconveniente, mettevamo degli asciugamani vicino alle gambe che ci riparavano. Mentre nelle serate molto fredde per scaldare il letto, vale a dire i materassi, si usava lo scaldino. Si metteva all’interno un poco di brace e cenere, si faceva intiepidire poi si passava sulle lenzuola così il letto si intiepidiva e subito ci si coricava in quel bel tepore!.

Ora vorrei parlare di me.

Finita la quinta elementare c’erano delle amiche che avrebbero  frequentato la scuola media, anche se non erano tante. A quei tempi bisognava prepararsi da privatista, quindi a pagamento, per sostenere l’esame di ammissione.
Quando dissi a mia mamma che anch’io volevo frequentare la scuola media lei mi rispose: “Figlia mia, io ti manderei volentieri, ma al momento non abbiamo nessuna possibilità economica per poterlo fare. Mi dispiace. Ma ti mando a imparare un mestiere, quello della sarta che è sempre meglio che andare a servizio” e soggiungeva “senza offesa per chi è costretto a fare quel lavoro”.
Grazie a Dio oggi chi fa quel lavoro viene chiamata COLF, dando un nuovo senso di dignità e rispetto, mentre allora veniva chiamata serva e come tale veniva trattata.
Già due mie sorelle andavano ad imparare da una sarta, ma lì c’erano solo donne, mentre un giorno, passando davanti ad una sartoria da uomo, vidi che lì cucivano sia ragazzi che ragazze , allora dissi a mia mamma che volevo andare ad imparare  in quella sartoria da uomo.
C’era un differenza tra la sartoria da donna e quella da uomo: che il sarto ci dava una piccola paghetta di cinque lire. E poi c’erano le mance che ci davano quando andavamo a consegnare i vestiti. Mance che noi dividevamo in parti uguali tra tutti. Anche se i maschi, qualche volta, facevano i furbetti dicendo che non avevano ricevuto niente. C’è anche da dire che i ricchi che ci davano due lire, erano meno generosi dei poveri, che ce ne davano anche cinque.

Confrontando i valori dei tempi di allora con quelli di adesso e considerando quello che avevamo noi con quello che hanno ora i nostri figli ai quali tutto è dovuto e hanno di tutto e di più, vi sono alcune cose che vanno bene, mentre altre, magari non proprio.
Quando siamo diventati, al tempo si diceva “grandicelli”, i miei genitori alla domenica ci davano la “paghetta”. Crescendo anche noi incominciammo ad essere un po’ esigenti, magari desideravamo  comprarci scarpe, vestisti o avevamo voglia di divertirci. Allora mamma ci diceva: “Con metà dei soldi vi comprate quello che volete, caramelle, castagnaccio, liquirizia o qualsiasi altra cosa, l’altra metà però, dovete metterla nel salvadanaio,e così quando vi serve qualcosa e io non posso comprarvela, ai soldi che mancano aggiungiamo i vostri del salvadanaio. In questo modo io posso spendere di meno e voi potete avere quello che più vi piace. 

Mia mamma aveva frequentato le magistrali poi essendosi sposata giovane non aveva finito la scuola.  Dopo la guerra e col passare degli anni, le cose sono cambiate anche perché noi lavoravamo e quindi qualcosa in casa in più c’era, inoltre le paghe, anche se solo di qualche dieci lire, incominciavano ad aumentare. Su sette figli (sei sorelle ed un fratello), solo per l’ultima sorella mia mamma ebbe il piacere di farle frequentare le scuole, tant’è che si diplomò maestra. Tutti avemmo una grande gioia, in particolare mia mamma, che vedeva realizzato il suo desiderio interrotto in sua figlia. Anche l’ultimo dei figli mio fratello, si diplomò ragioniere  ed attualmente è commercialista.

Chiuso. Mi sembra di aver scritto  un libro.

STRADE

Le strade sterrate di campagna, nel nostro dialetto pugliese, vengono chiamate Turtor se la strada è lunga, Turturid se è corta che normalmente si percorrono a piedi, in bicicletta oppure a cavallo.
Noi avevamo un po’ di campagna che mio padre coltivava piantando piselli, fave e ceci.  Tra marzo ed aprile quando arrivava il periodo del raccolto, papà contattava un contadino che  aveva un cavallo col carretto e poi, per risparmiare sulla raccolta, anziché pagare qualcuno portava noi figli, altrimenti, come diceva lui “il gioco non valeva la candela”. 
Qualche volta sono andata anch’io alla raccolta e quando scendevamo dal carretto, facevamo ancora un pezzo di strada a piedi, il cosiddetto “turturid”, mentre il contadino andava fino al campo con il cavallo e il traino per portare su e giù il raccolto.
Avevamo anche un mandorleto e tra luglio ed agosto per il raccolto delle mandorle era la stessa cosa. Non vi dico la faticaccia! C’era da rompersi la schiena perché giù da noi  le piante sono basse e  non alte come quelle che ho visto qui.
Per raccogliere le mandorle, si battevano gli alberi per farle cadere sui teli  che venivano stesi a terra, ma molte cadevano al di fuori e bisognava raccoglierle una per una.
Una parte del raccolto lo si mangiava subito mentre il resto lo si seccava per la provvista dell’inverno.

 A MAGHIUCHE’ U GREU (MESE DI GIUGNO RACCOLTA DEL GRANO)

 Tradotto in italiano “a maghiuchè  u greu” vuol dire “battere  le spighe con i bastoni”.
Io sono pugliese e nel tavoliere della Puglia c’è una grande distesa di coltivazione di grano. Quando ero ragazzina, mi ricordo che c’erano contadini che avevano solo piccoli appezzamenti di terreno e anche dei disoccupati che venivano contattati dai padroni di grandi masserie che avevano grandi quantità di raccolto del grano.
Partivano famiglie intere con il traino tirato dal cavallo per andare in queste masserie dove erano stati chiamati e si fermavano per tutto il periodo del raccolto.  A volte dormivano anche nelle stalle.
Per prima cosa falciavano il grano che riunivano in fascine e con queste formavano dei covoni che poi, portavano nell’aia dove c’era una trebbiatrice al servizio di ogni contadino che pagava la sua parte di trebbiatura.
Dopo il raccolto i braccianti spigolavano il grano facendosi la provvista per quasi tutto l’anno. Questo grano, però, non lo portavano a trebbiare ma lo  “maghiuccavano” cioè, lo stendevano per terra e due o tre persone lo battevano con dei bastoni di legno in modo sincronizzato: come una musica. Poi per dividere la paglia dal grano stendevano dei teli per terra, le donne si mettevano le bandane per non impolverarsi i capelli, prendevano dei recipienti, bacinelle o setacci, si mettevano controvento e ventilavano il grano dimodochè,   il vento spingeva la paglia che è più leggera da una parte ed il grano dall’altra. Questa procedura si ripeteva anche più volte. Quando il grano era bello pulito si riempivano i sacchi. Così le famiglie tornavano a casa e con il grano e con la paga. Infine prendevano un tot di grano e andavano dal mugnaio per macinarlo ed ottenere la farina con la quale facevano il pane, la pasta e tutto quello per cui la farina serviva. E questa operazione si ripeteva ogni volta che la farina finiva fino al suo esaurimento dopo di che si attendeva la prossima raccolta.

VOLANDO IN AEREO (3 dicembre ’07)
  
Ho fatto un viaggio in aereo da Bari Palese a Torino Caselle.
Si sa che l’aereo mette sempre un po’ d’ansia. Ma se si riesce a controllarla e così stare tranquilli si può godere degli spettacoli che la natura ti offre.
In quel viaggio, dal mio paese a Torino ho visto uno spettacolo favoloso. In quel passare dal mare alle montagne, e poi in mezzo alle nuvole, mi sembrava di cambiare mondo da un momento all’altro. Mai visto dei nuvoloni così. Sembravano massi di neve dove traspariva il sole tanto erano bianchi. Uno spettacolo stupendo! Anche se non vedevo l’ora di rivedere il mare, la terra e l’aeroporto  dove finalmente siamo atterrati e con un sospiro di sollievo ho ripreso i miei bagagli e sono tornata a casa. 

SE TORNASSI INDIETRO NEGLI ANNI .....

Se tornassi indietro negli anni, rifarei tutto quello che ho fatto; tranne una cosa: quella di non aver preso la patente. (Con questo non voglio dire che io sono la perfetta!)

Nel millenovecentosettantadue, nel mese di settembre, per motivi di lavoro, ci siamo trasferiti, io e la mia famiglia, da Novara a San Gillio.  L’alloggio, di nuova costruzione, nel quale  siamo andati ad abitare era pressoché finito, mancavano solo i battiscopa nell’entrata e la serranda nel bagno.
Quando siamo arrivati ci siamo quasi “accampati”, nel senso che non potevamo mettere tutto a posto in quanto dovevamo dare il bianco.
Io ho quattro figli. Ma allora, quando ci siamo trasferiti, di figli ne avevo tre, Nicola, Rita, Helga, ed ero in cinta di sei mesi del quarto “Ruggero”. Abbiamo dovuto accelerare il trasferimento per iscrivere i nostri figli alla scuola. A quei tempi la scuola iniziava ad ottobre.
Poi, non vi dico quanta strada abbiamo percorso a piedi! Pianezza/San Gillio – Druento/San Gillio perché, per andare a far le visite mediche bisognava andare alla MUTUA di Rivoli e capitava a volte di perdere il pullman per San Gillio. Qualche volta mio marito poteva accompagnarci, altre volte, perché impegnato sul lavoro non poteva e allora ci aggiustavamo come si poteva. A volte eravamo fortunati perché incontravamo persone di San Gillio che ci offrivano un passaggio.
E’ stata una gran fatica. Ma quello che più rimpiango oltre la giovinezza: è la patente.

          LA VITA  A CONFRONTO COI TEMPI PASSATI

        Dal dopoguerra ai tempi attuali il modo di vedere e pensare è cambiato.
Ai miei tempi si diventava maggiorenni a ventun anni e i maschi automaticamente venivano chiamati per il servizio militare (allora obbligatorio). Ora invece si è maggiorenni a diciotto anni ed il servizio militare è solo più volontario.
La classi elementari (anche se non tutti le frequentavano) come minimo avevano trenta alunni e arrivavano a volte anche a quaranta. Non tutti riuscivano ad arrivare alla classe quinta chi per pigrizia e chi per necessità familiare.
I genitori dei ragazzi che per pigrizia non volevano arrivare a prendere il diploma della quinta elementare, dicevano che li avrebbero mandati a fare il muratore che a quei tempi era un lavoro più duro che fare il contadino. 


la scatola magica

“La scatola magica” è un carillon che ha quarantanove anni.
Dentro a questa  “scatola magica” ci sono tanti ricordi, tutti belli, impressi nella mia memoria.
Nel ’59 il mio fidanzato si era trasferito a Torino per lavorare alla Facis. Dopo un anno ci siamo rivisti, riabbracciati e baciati. Lui, il mio amore, che si chiamava Pierino, per l’occasione mi regalò questo carillon che suonava e suona tutt’ora  una bella canzone intitolata “Eternamente mia” che è diventata il simbolo del nostro amore. Durante la sua assenza, ci scrivevamo lettere d’amore e mi ricordo anche  la prima volta che ho utilizzato il telefono ed  è stato proprio per parlare con lui. Allora erano in pochi ad averlo in casa. Il mio amore, aveva contattato il centralino telefonico il quale mi aveva mandato l‘avviso con l’ora precisa per l’incontro. Non vi dico che emozione sentirci!
Ci eravamo conosciuti in sartoria che io avevo undici anni e lui dodici e poi lì è nato l’amore. Ci siamo sposati il 19 agosto del ’61 alle ore undici, ed era di sabato. Dopo tre giorni siamo partiti per Torino e abbiamo raggiunto la nostra casa. Prima di partire i miei genitori avevano raccolto le mandorle e io ne avevo vista un doppia (come fossero due gemelle) l’ho presa e l’ho messa nel carillon come portafortuna e ho messo anche un ago di macchina per maglieria (quelle dei vecchi tempi) per ricordo del maglificio in cui avevo lavorato per un certo periodo.
Il nostro matrimonio è durato quarantaquattro anni ed il mio amore purtroppo ora non c’è più e conservo questo carillon con il suo contenuto di cari ricordi come un dono prezioso: “una scatola magica”.


Silvia Scirè

MIA NONNA

Ho un ricordo bello di mia nonna. In autunno, con i primi freddi, lei se ne stava  in casa e con il filo per lavorare all’uncinetto creava dei bellissimi capolavori come centrini, coperte e altro.
Un giorno le chiesi di insegnarlo anche a me e lei con molta pazienza me lo insegnò e così anch’io con il suo aiuto creai dei mantelli, delle sciarpe ed altre cose per le bambole.
La nonna abitava con mio zio e ricordo (cosa che a me pare buffa) che quando veniva su da noi voleva vedere alla TV le telenovelas. Quelle come i Tre Angeli e simili. Io e mio fratello che eravamo bambini, sbuffavamo perché invece volevamo vedere i cartoni animati.

LA VOGLIA DI ANGURIA …..


Quando i genitori di mia mamma erano vivi e abitavano a Militello in provincia di Catania andavamo lì a trascorrere le ferie.
Ricordo che nella casa di mia nonna c’era un’entrata in cui le scale andavano anche giù in cantina dove mia nonna teneva le bottiglie di vetro della Coca Cola e anche i ceci con lo zucchero (di cui io ne andavo ghiotta) e altre provviste.
Un giorno venne il fratello di mio nonno e io gli ho detto che ero ghiotta di anguria e lui “vuoi vedere che ti faccio passare la voglia?” “Figurati, non ci riuscirai mai!” gli ho risposto.
E così è stato. Lui che aveva un negozio di frutta e verdura me ne portava ogni giorno e con somma mia goduria ne ho mangiata tanta, così tanta, ma …… la voglia di anguria non mi è proprio passata!!!! 

LE STAGIONI


Se guardiamo intorno a noi possiamo notare le diversità del clima e delle ore che le distinguono.

L’AUTUNNO
Incominciano le prime piogge e le persone prendono dai cassetti gli ombrelli o gli impermeabili per coprirsi.
In estate si indossavano le magliette, i pantaloncini, i pinocchietti e i pareo. Adesso si sistemano in ordine nell’armadio e si incomincia a mettere fuori le gonne autunnali, i pantaloni e le camicie.
Se si guarda il cielo ci si rende conto di quanto le giornate in agosto fossero più lunghe.  Alle  nove di sera era ancora giorno, mentre adesso succede che le giornate incominciano ad accorciarsi e diventa buio sempre più presto.
A settembre chi va a passeggiare  nei prati se guarda bene intorno a sé nota qualcosa di particolarmente bello. I vigneti sono carichi di grappoli d’uva nera o bianca ed è talmente buona da mangiare un chicco dopo l’altro con tanta ingordigia da non smettere mai anche perché possiede notevoli proprietà nutritive.
Sempre guardando verso i vigneti si possono notare delle persone che raccolgono l’uva comunemente chiamati vignaioli.
Dopo la raccolta con molta cura l’adagiano nei frantoi e incominciano a pestarla. Il succo che viene fuori lo mettono a macerare nelle botti.
Dopo un certo periodo di tempo il succo messo a macerare nelle botti si trasforma in vino. In fondo alle botti normalmente c’è un rubinetto che aprendolo girando la chiavetta esce il vino. Vi sono delle persone che sono addette al travasamento del vino dalla botte alla bottiglia.
Alcune bottiglie vengono vendute in cartocci.  Altre vengono conservate nelle cantine per farle invecchiare, allo scopo di rendere più gradevole il gusto. E’ così che i  sommelier possono dire assaggiandolo se è di ottima annata.


OTTOBRE
E’ il periodo delle castagne. Di queste prelibatezze se ne trovano nelle bancarelle al mercato a due euro e cinquanta al kilo.
Chi non le vuole acquistare può andare a raccoglierle nei boschi che per terra se ne trova in quantità ma, bisogna fare attenzione a non pungersi le mani con quelle che sono ancora avvolte nel riccio.

INVERNO
Anche qui si ripete il solito rito. Qualcuno a questo punto potrebbe chiedere: “Cosa si fa?” E’ semplice, le scarpe autunnali ed anche i sandali si sistemano nella scarpiera e vengono sostituiti dagli stivali, dalle scarpe invernali e dalle pantofole imbottite. Si accende anche il riscaldamento (e qui sono palanche di soldi da pagare!).
Se in inverno ci si vuole sgranchire le gambe e fare una passeggiata si vede il fumo che esce dai camini delle case. E’ bello vedere tanti fumaioli ……. “VRUMMM… CHE FREDDO CHE FA!”.

Mentre si cammina con la bocca si fa come il vento. Infatti l’alito caldo che esce dalla bocca a contatto con il freddo si trasforma in una nuvoletta nebbiosa.


INVERNO

Aperta  la porta di casa mi accarezzò un’aria gelida e pensai: “è inverno!” Guarda un po’ cosa stanno facendo quei bambini …. un corpo con una testa, due bottoni che sembrano occhi, una carota come naso ed un pezzetto di mela come bocca. Più  giù altri bottoni … sì è il vestito e due rami come braccia e come piedi due scarpe. Ecco il pupazzo di neve! Guardando più lontano vidi dei bambini che giocavano e ritornai indietro nel tempo quando anch’io ero piccola e come loro giocavo a palle di neve con mio fratello. Ricordo anche  che sul balcone posavo per terra un pentolino che si riempiva di neve ed io e mio fratello ci mettevamo zucchero e limone e mangiavamo questa bontà.  Peccato che i bambini di oggi non lo possono più fare perché oggi c’è molto smog. Andando a fare la spesa vidi per terra una lastra di ghiaccio e dei ragazzi che stavano pattinando con perizia su quelle lame sottili.

Negli scritti precedenti avevo parlato dell’autunno così come oggi ho parlato dell’inverno, descrivendo per ognuna delle due stagioni il loro particolare fascino e mistero.

          IL VIAGGIO 

Grazie a due grandi amici che sono venuti a parlare con i miei genitori e sono riusciti a convincerli oggi, 24 novembre ore sette,  insieme  a tutti gli amici del coro, al sindaco e agli accompagnatori, mi trovo sul pullman per andare a Cona per un concerto.
Ore 10’30. Dopo una breve pausa in autogrill per un caffè, ci troviamo    adesso alle porte del Veneto.
Dodici meno un quarto. Stiamo uscendo a Padova EST.
Dodici e trenta. Siamo verso Chioggia e stiamo ammirando la laguna veneta dove ci sono molti pescherecci che vanno a pescare le cozze (come sono buone con il limoncello, ne mangerei una valanga!).
All’una meno venti siamo a Chioggia, il tempo è un po’ nuvoloso. Chioggia è una città piena di canali e di ponti, con molte barche.
All’una e trenta sono seduta all’aperto insieme ad alcune amiche e sto pranzando con un panino, il barista mi ha regalato dei grissini al nero di seppia. Che buoni! Le mie tre amiche sono molte simpatiche e stiamo chiacchierando insieme. Nell’aria c’è un bel profumo soave di mare.
Alle quattordici e trenta siamo di nuovo sul pullman per portare gli accompagnatori in albergo mentre noi cantori andiamo a cantare.
Risaliti sul pullman ora stiamo attraversando il fiume Adige.
Ritornando a Chioggia siamo stati fermi in strada perché il ponte sul canale Garzo, (che è girevole per fare passare le navi) era in movimento. Nel canale ci sono tante qualità di pesci.
Alle tre e un quarto siamo arrivati a Rottanova dove c’è un’antica chiesa con molti affreschi e un organo. Guardando verso il soffitto si vede la balconata con le canne e lì abbiamo fatto le prove.
Alle sedici e dieci ci siamo recati in albergo. Che bello! Sono in camera con una grande amica: Valeria che tutti voi conoscete. In camera vi sono due lettini, un piccolo frigorifero, un televisore, l’armadio e i servizi.
Diciotto e dieci. Siamo di nuovo sul pullman per andare a Cona.
 Cona ha una chiesa bellissima. L’altare è sorretto da pilastri in marmo con degli affreschi e la madonna che ti accoglie a braccia aperte.
Il parroco è giovane e simpatico e il nostro coro ha cantato come un “BUM BOMBA”
Quando siamo arrivati ci hanno accolti con il suono delle campane e nell’oratorio i parrocchiani ci hanno offerto l’aperitivo.
Finita la messa siamo ritornati col pullman in albergo per la cena che è stata meravigliosa. Cucina casalinga e ……. ho mangiato come un elefante!
Dopo cena siamo ritornati a Rottanova per il concerto dei due cori: il nostro e quello locale.
Il loro coro è stato fantastico ed è stato anche bello quando i due sindaci si sono scambiati i doni. Uno di questi era uno stendardo con al centro l’emblema di due mani che si stringono in segno di amicizia e fratellanza.
Dopo anziché tornare in albergo siamo andati in discoteca ed io mi sono buttata in balli sfrenati. Il primo ballo è stato un valzer che ho ballato con un ragazzo del coro, di nome Claudio, molto affascinante e ballava molto bene.
Ritornati in albergo io e Valeria abbiamo parlato un po’. Dopo di che ci siamo coricate e ……… BUONA NOTTE! fino all’indomani mattina.
Domenica alle sei mi sono alzata, Valeria era già sveglia ed io mi sono sdraiata vicino. Alle sette è venuto Piero a dirci: “Giù dalle brande!” e così ci siamo alzate e dopo esserci sistemate siamo scese per la colazione.
Prima di partire, con Valeria ed altri amici del gruppo siamo andati a fare una passeggiata ed abbiamo visitato la chiesa di San Giuseppe. All’interno c’era la statua di San Giuseppe e quella di Gesù i cui occhi erano talmente espressivi che sembrava che parlassero e io gli sono andata vicino e l’ho baciato.
Alle ore nove ripartiamo per Rottanova per ascoltare la santa messa,nella chiesa dove ha cantato il nostro coro, che è stata molto partecipata.
Dopo siamo andati a comperare le cartoline poi abbiamo pranzato con gli amici di Rottanova e Cona. Io ero seduta insieme a Tatiana ed altre tre mie amiche. Tra le portate c’era un piatto che non avevo mai assaggiato: polenta bianca con pesce fritto e anche con le seppie. Un altro piatto per me un po’ strano è stato l’ananas accompagnato al dolce. E’ stato un pranzo lungo e buono: da favola.
Alle sedici  in punto tutti sul pullman per il viaggio di ritorno.
Tra i vari scambi di regali tra i sindaci il sindaco di Cona ha regalato al nostro sindaco una bella targa con inciso il ringraziamento per il coro di S. Gillio che il sindaco a sua volta ha voluto regalare (mentre eravamo lì tutti insieme sul pullman) al maestro del nostro coro, il quale ha detto che la sistemerà nella stanza dove facciamo le prove ogni mercoledì.
Questo viaggio è stata una bella esperienza. Come gruppo abbiamo avuto  l’opportunità di conoscerci meglio, condividendo le piccole e grandi gioie di quelle belle giornate.
Valeria e Piero mi sono stati sempre accanto come un vero fratello e una sorella. Ringrazio Dio che mi ha donato questi due amici ed io vorrò loro sempre bene.
E non è finita qui. Sabato primo dicembre e domenica due dicembre i nostri amici di Cona e Terranova ci restituiranno la visita venendo qui  a S.Gillio ed io li aspetto con gioia.

LA VISITA
 
Sabato primo dicembre.
Oggi gli amici di Cona e Terranova sono arrivati.
Il sindaco, il nostro maestro di musica insieme a Gionni che è il nostro musicista hanno accompagnato gli ospiti a visitare la nostra bella Torino.
Io ed alcuni miei amici, alle quattordici e trenta, ci siamo incontrati in parrocchia per apparecchiare i tavoli e sistemare le sedie. Anna Caleri, Anna Bianco, Anna Orso e Jan hanno preparato la cena.
Alle diciannove abbiamo cenato tutti insieme. Chiara, Sara, Lina e altre persone del coro hanno servito a tavola.
Dopo la cena e dopo aver sistemato le valigie in albergo i nostri ospiti sono ritornati per il concerto e il nostro coro con alcune rappresentanze del paese come l’UNI TRE, l’AVIS ecc. ecc. li abbiamo accolti davanti alla chiesa e quando è arrivato il loro pullman li abbiamo salutati e quando sono scesi li abbiamo applauditi e li abbiamo fatti passare in mezzo a noi che formavamo un corridoio poi quando loro sono entrati tutti in chiesa siamo entrati anche noi.
Prima del concerto Valeria ha presentato il coro di San Gillio, di Teranova e di Cona e ha  parlato del gemellaggio tra queste due terre. E poi ha anche raccontato di noi San Giliesi che la settimana prima eravamo andati da loro e adesso erano loro ospiti qui da noi.
I primi a cantare siamo stati noi seguiti da loro che sono stati bravissimi.
A sentire il concerto c’erano anche delle mie amiche dell’UNI TRE. Spero tanto che a loro sia piaciuto.
Dopo il concerto il sindaco di San Gillio ha ringraziato facendo i complimenti a tutti noi che abbiamo cantato e ha annunciato che il prossimo anno andremo tutti a cantare davanti al PAPA.
Anche il parroco di Cona ha ringraziato i Sangiliesi ed il maestro ci ha regalato un cesto con i prodotti tipici del Veneto e quattro libri di cui uno per il sindaco, un altro per il maestro del coro e un altro ancora per il maestro che suonava il pianoforte. Dopo siamo andati tutti nella stanza dove noi facciamo le prove e dove avevamo allestito un rinfresco dopodiché i nostri amici-ospiti hanno raggiunto l’albergo con il pullman, per riposare, dopo quella lunga giornata, fino all’indomani mattina.
Noi Sangiliesi siamo rimasti insieme ancora un po’ e poi siamo andati a casa anche noi a dormire.
L’indomani mattina, alle nove, io sono andata in parrocchia dove insieme alle mie amiche del coro dovevamo preparare di nuovo i tavoli per il pranzo al quale partecipavamo noi dei due cori e alcune persone di San Gillio al  prezzo di dodici EURO  a persona.
Durante la messa delle dieci, celebrata da Don Beppe, parroco di Cona ed un sacerdote passionista di San Pancrazio, hanno cantato i nostri amici del Veneto. Grazie a Dio, noi non abbiamo cantato, così abbiamo ascoltato anche noi, una volta tanto come gli altri parrocchiani. Per fortuna sia al concerto che alla Santa Messa c’erano tantissime persone.
Alle undici sono andati alla Cooperativa del nostro paese per visitare il museo degli antichi mestieri e lì hanno offerto loro anche l’aperitivo.
Alle ore dodici sono ritornati per il pranzo.
Io mi sono seduta vicino al parroco di Cona e ad altri amici del Veneto. Alla mia destra c’era il parroco e alla mia sinistra una simpatica e saggia signora con la quale siamo diventate amiche ed ha anche voluto il mio numero di telefono. Ora non so se si farà sentire ma mi ha fatto molto piacere che abbia voluto il mio numero perché, forse, vuol dire che le ha fatto piacere avermi  conosciuta.
Alle ore sedici sono partiti. Quando con la mia nuova amica ci siamo salutate, vicino a me c’era il sindaco e lei gli ha fatto promettere che sarei andata anch’io il prossimo anno a Roma.
Partiti loro,  io e alcune mie amiche del coro abbiamo risistemato le varie stanze, lavato i piatti e le stoviglie, dopo di che stanche ma felici siamo tornate a casa.
     
       la sofferenza 

Nei momenti di sofferenza si tende ad isolarsi da tutti, ma poi succede, e ti rendi  conto che non puoi, che gli amici dell’UNITRE, sono lì, a darti una mano, incoraggiandoti, dicendoti: “dai su, forza, coraggio! Se tu non vieni da noi, saremo noi a venire da te!”  
Così è capitato a me quando mia madre si ammalò e i medici le dissero che avrebbe dovuto essere operata. Io, allora, ho chiesto a Gesù di aiutarla e di farle incontrare  dei medici veramente in gamba ed una compagna di camera giovane e religiosa.
Il giorno dell’operazione andarono mio padre e mia sorella all’ospedale, mentre io e mio fratello eravamo al lavoro.
Mia mamma entrò in sala operatoria  alle nove del mattino ed io e mio fratello aspettavamo con ansia che quel dannato telefono squillasse ma le ore passavano e il telefono restava inesorabilmente muto ed è successo che arrivate le due e trenta del pomeriggio, io non ce l’ho più fatta e sono scappata a piangere in bagno per non farmi vedere da mio fratello. Poi facendomi coraggio mi sono detta: “ Silvia, stupida, che fai? Asciugati gli occhi e torna da tuo fratello e digli che potremmo telefonare noi a papi.” Allora sono tornata e ho visto che anche lui aveva gli occhi arrossati. Ci siamo guardati e tutti e due ci siamo detti “telefoniamo a papà” ma nello stesso istante il telefono è squillato ed era mia sorella che ci comunicava che l’operazione di mamma era andata bene, che l’avevano riportata in camera e stava riposando. Io sono di nuovo scappata in bagno a piangere ma stavolta erano lacrime di gioia ed ho ringraziato Gesù. Devo riconoscere, purtroppo, che sono  molto emotiva. Quando sono triste mi metto a piangere e quando ho un problema mi isolo dagli altri. Invece dovrei essere più forte, affrontare i problemi, tentare di risolverli e non scappare, rinchiudendomi in me stessa. Dovrei imparare a stare insieme agli altri anche quando le cose non vanno bene, anche se per me è difficile, perché vorrei starmene a casa da sola a rimuginare nei miei tristi pensieri. E’ questo che mi insegnano  i miei amici del teatro.
Io e mio fratello siamo andati in ospedale a trovare mia madre la sera stessa.  La mamma stava bene anche se dormiva per via dell’anestesia. Nel letto accanto a lei, c’era una simpatica signora e guardandola bene, mi pareva di conoscerla ed anche lei aveva la stessa sensazione. Guarda caso la signora era di Pianezza e l’avevo conosciuta in parrocchia un giorno in cui ero andata a cantare.
Gesù, veramente mi ha ascoltata, ed ha esaudito le mie richieste.  Dopo ho incontrato gli amici dell’UNITRE e tutti con calore si sono informati su com’era andata l’operazione. Tra loro c’erano anche Piero e Valeria, che come ho sempre scritto, per me sono veramente due amici speciali. In ogni momento ed in ogni situazione mi stanno vicino e mi danno anche dei buoni consigli. Mi hanno insegnato che ogni momento della vita va affrontato con serenità, guardando sempre le due facce della medaglia. Ma di Valeria devo dire ancora di più. Se ho ripreso ad uscire e se oggi conosco questi amici dell’UNITRE (che sono veramente speciali anche loro), lo devo a lei, perché dopo una brutta esperienza mi ero rinchiusa in me stessa.
Ritornando a mia mamma, il giorno dopo l’ho trovata finalmente sveglia, ma non poteva alzarsi dal letto perché aveva la febbre.
La signora di Pianezza, sua vicina di letto, che si chiama Emilia, ci ha detto di non preoccuparci perché l’avrebbe accudita lei. C’era anche un’altra ragazza di nome Anita che le faceva compagnia.
Il sabato pomeriggio, io non lavoravo e quindi sono andata da mia mamma, ed è stato un pomeriggio divertente nonostante l’ospedale.
Emilia ad un certo punto ha detto a mia mamma: “il prossimo anno porterò sua figlia con me in Portogallo” chè lei è portoghese.
Mia mamma ha chiesto: “ma  quanto costa?” “niente” ha risposto Emilia “perché verrebbe in macchina con me e dormirebbe e mangerebbe a casa mia”. Lei in Portogallo abita proprio di fronte al mare e i suoi fratelli sono pescatori. Qui lei svolge molte attività sia nel mondo del volontariato che per le feste di Carnevale dove, insieme alle sue amiche, addobbano un carro che seguono ballando mascherate e partecipa anche al palio “SEMINA SAL” che si svolge sempre a Pianezza, invitando anche me a parteciparvi. Inoltre, mi ha anche chiesto di andare insieme a lei a giugno alla Madonna delle Rose.
Anche Anita è molto simpatica. Lei lavora nel mondo del computer e fa parte di un movimento ecclesiale di Torino. Il caso vuole, che Ettore, un mio carissimo amico, al quale sono molto legata,  faccia parte dello stesso gruppo. E’ un anno che lo conosco. Mi è stato molto vicino in questo periodo confortandomi e dicendomi: “Silvia non ci pensare, vedrai che andrà tutto bene” e così è stato. Molte volte litighiamo perché io mi chiudo in me stessa, ma lui riesce sempre a far venir fuori la mia parte migliore. Io sono una ragazza che pensa sempre al peggio, come ad esempio in questo periodo con mia mamma e lui mi sta insegnando a pensare in positivo e anche a farmi uscire di casa.
Per me lui è una persona eccezionale. Quando ho dei problemi mi confido e lui sa prendermi sempre dal lato migliore, sopportandomi. Io sono molto difficile e come lui riesca a sopportarmi senza mandarmi “a quel paese” ancora non lo so.
Il lunedì sento squillare il telefono ed era mia mamma che mi diceva che l’indomani avrebbe lasciato l’ospedale e quindi sarebbe venuta a casa. E per la felicità ho di nuovo pianto!
Mia mamma adesso è a casa e sta bene. Con Anita ed Emilia è nata una vera amicizia che mi dona tanta gioia. Ci sentiamo per telefono e c’ incontriamo. A maggio quando faremo lo spettacolo dell’UNITRE mi hanno promesso che verranno a vedermi a recitare.
Questa nuova amicizia mi ha insegnato che anche dalla sofferenza può nascere qualcosa di bello e di incominciare a pensare più al meglio che al peggio. 


PRIMAVERA


Ho chiuso la porta e mi sono ritrovata fuori, sul marciapiede di casa mia. Un vento tiepido mi accarezzava il viso, ma per la mia timidezza camminavo con lo sguardo rivolto verso il pavimento. Un profumo intenso mi invitava ad alzare il capo per vedere da dove proveniva. Mi feci coraggio. Guardai e vidi che c’era un prato immenso e molti fiori, uno diverso dall’altro: tulipani, margherite, rose, azalee e tantissime altre specie (che non sottolineo perché atrimenti mi ci vorrebbe un foglio intero).
Non mi sembrava di essere nei pressi della mia casa ma in un mondo fiabesco.
Il mio sguardo andò oltre e vidi i negozi, le case con i balconi stracolmi di fiori e alcune persone che sedute chiacchieravano e mi resi conto che mi trovavo al mio paese.
Dei bambini giocavano in piazza con il pallone, altri a nascondino. Altri correvano. Li vicino il carretto dei gelati e il gelataio che gridava “Venite, venite ad assaggiare questo gelato, è una vera bontà”.
L’acqua ch sgorgava da una vicina fontana mi fece venire in mente una canzone che cantavo quand’ero ragazzina:

… acqua scenderà
     limpida  sarà
     acqua scende giù dai monti
     acqua chiara acqua vera ….

Ad un certo punto mi sento un certo languorino guardo l’orologio, segnava le undici. Come mai, mi sono chiesta, aver fame così presto? Ma l’occhio mi cade su un giornale buttato lì. Il titolo riportava l’invito a non scordarsi di cambiare l’ora. Adesso ho capito! È il cambio dell’ora che mi invita a pranzo …. così sono tonata a casa. Alla sera mi venne voglia di aprire la finestra. Guardai fuori. Di fronte a me c’erano le montagne con un tramonto tutto rosso. Era bellissimo e pensai “quanto è immenso il cielo con le stelle e le costellazioni!!!! E ora concludo con questo canto:

E’ primavera svegliatevi bambine ….
Aprile dolce dormire.
Marzo pazzerello lascia il sole e prende l’ombrello.
Maggio la festa della Madonna e di tutte la mamme.
Marzo la festa del papà e di S. Giuseppe e … altro ancora.

DA QUELLA PRIMAVERA …..

Da quella primavera il coraggio dentro di me cresceva: a poco a poco.
Infatti, con molto coraggio aprivo le finestre non avendo più paura di lavarle, e mi piaceva il contatto con le persone.
Visto che la mia casa si trova nei pressi della piazza del paese, con molti negozi li vicino, le persone passeggiando si fermano a dialogare con me. Un giorno in una via adiacente c’erano delle bancarelle e pensai di andare a curiosare. Così in un lampo mi vestii, scesi le scale, presi la borsa e uscii. Ma mentre passeggiavo ebbi caldo e mi tolsi la camicia. Li per li mi chiesi “come mai ho caldo?” ma soffermandomi a leggere un articolo di un giornale esposto dal giornalaio, vedendo la data, dieci luglio, mi ricordai di botto che era estate.
Che bello vedere tutte le bancarelle allineate e i commercianti che urlavano imbonendo i loro prodotti: “Comprate le cipolle, a un euro al chilo”…. “che ne dici di queste belle mele a un euro e cinquanta?” Più in là dei ragazzi scherzavano felicemente mentre si gustavano un gelato. Poi incontrai una mia amica con la quale dialogo solitamente dalla finestra che mi disse: “Brava, hai avuto il coraggio di uscire. Adesso che ne dici di venire al mare con me visto che ho una casa a Marina di Massa e così non devi pagare nulla e mi fai compagnia?” Esitai un attimo ma visto che insisteva mi sono detta “ perché no?” così ho accettato, e lei mi disse: “allora vai a casa, prepara la valigia, che domani partiamo”.
Subito ho pensato “ho un po’ di paura, ma lei è un’amica e mi è stata vicino tutti questi anni, perché non provare?” così andai a casa, mi preparai la valigia con molta roba perché avrei dovuto trascorrere con lei i mesi di luglio ed agosto.
La notte trascorse in fretta e l’indomani lei venne a prendermi con l’auto. Che meraviglia il panorama con tutte quelle case con i balconi pieni di fiori! Nel viaggio oltrepassammo molte gallerie, all’undicesima vidi il mare. Bellissimo, calmo, con molte barche piccole e grandi.
Arrivati a Marina di Massa andammo subito a casa sua che è bellissima. Composta da cucina, camera da letto e un bagno. La cucina ha un grande balcone che si affaccia sul mare. Allora mi sono seduta là fuori, la sabbia della spiaggia era fine e il mare calmo. Dei bambini con dei secchielli costruivano castelli di sabbia mentre altre persone prendevano il sole, qualcuno leggeva il giornale e altri giocavano coi bambini.  La mia amica mi disse: “che ne pensi, andiamo a farci una nuotata?” io le dissi di sì. Era bellissimo nuotare con lei.
Le ore passarono veloci ed arrivò subito mezzogiorno. Vicino a casa c’era un negozio che vendeva pesce e lei mi propose pesce per pranzo, cosa che accettai  con entusiasmo. Così per pranzo preparammo il pesce che era buonissimo e io ne mangiai tantissimo.
Il pomeriggio lo trascorremmo al mare. Che bello vedere il tramonto dalla spiaggia, sembra che il sole giochi a nascondino con il mare.
Alla sera andammo anche a ballare. Lì mi fece conoscere i suoi amici e mi resi conto che la paura dentro di me era finita. Che ero felice di stare insieme agli altri e di continuare a vivere la mia vita andando verso gli altri senza più nascondermi. Stavo affrontando tutte le situazioni con gioia, senza più  remore.
I giorni passarono e venne l’ora del ritorno a casa.          
Non dimenticherò mai i giorni felici trascorsi insieme alla mia amica ed ai suoi amici. Nel ritorno portai con me un grande cambiamento.
Ora continuerò a frequentarla. Non starò più sola, chiusa in casa, uscirò con lei, andrò a fare la spesa e pulirò la mia casa con gioia e tranquillità. Semplicemente incomincerò a vivere grazie a lei.  


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